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Sollevazione popolare a Putignano e morte di Margherita Pusterla*

La nostra storia dimenticata: 13-14 maggio 1902

Una folla di circa cinquemila putignanesi (la città contava 13.969 abitanti al censimento del 1901) per due giorni, il 13 e 14 maggio 1902, dette sfogo alla propria indignazione e rabbia nei confronti della ristretta classe dei proprietari terrieri e dei ricchi borghesi che ingrassavano sul lavoro e sulla miseria dei lavoratori della terra.

 

La protesta era anche rivolta contro il dazio, un sistema ingiusto ed esoso di tassazione indiretta che, con imposte e balzelli vari, pesava soprattutto sui miseri consumi popolari. Solo per il cibo, c’era il dazio sull’importazione del grano, base alimentare dei ceti popolari, per mantenere alto il prezzo del prodotto locale; c’era il dazio sui prodotti alimentari che dalla campagna arrivavano in città per il commercio o per l’autoconsumo familiare e dovevano pagare il dazio perfino quegli scarsi alimenti che molte famiglie contadine riuscivano a produrre per il proprio sostentamento. Era così, per esempio, anche per il frutto della ‘spigolatura’, quando le donne e i bambini delle famiglie più povere, dopo aver elemosinato il permesso dai proprietari terrieri cui andava comunque ‘la parte’, raccoglievano, sotto il sole che cuoceva le pietre, le poche spighe di grano o di orzo cadute a terra ed abbandonate durante la mietitura. Quando, poi, col grano si andava al mulino per trasformarlo in farina, bisognava pagare la tassa più odiosa ed odiata, il ‘dazio sul macinato’, la tassa sulla fame. Qualche mese dopo la tragica sommossa di Putignano, nel corso del Consiglio Comunale(1) del 27 dicembre con ordine del giorno ‘Abolizione dei dazi consumo ed abbattimento della cinta daziaria’, il marchese Giovanni Romanazzi Carducci, dichiarandosi a favore dell’abolizione, dovette ammettere che il dazio ‘colpisce solamente il povero’. Non poteva certo aggiungere che questo avveniva per evitare di imporre un’equa tassazione sulla proprietà terriera e su beni e redditi dei ceti abbienti, anche se implicitamente lo riconosceva ‘accettando per mio conto qualsiasi tassa possa colpire esclusivamente gli abienti’(2).

Verso la fine dell’anno il dazio fu abolito, perlomeno nelle forme che più pesantemente gravavano sui consumi popolari, come per i farinacei. Salvo ripristinarlo alla prima occasione, tanto da trovarlo ancora in vigore fino agli anni successivi al secondo dopoguerra. Quanto alla situazione più generale, qualche anno prima, un osservatore imparziale, il francese Alessandro Dumas padre, aveva scritto dopo un viaggio dalle nostre parti: ‘Mentre il ‘signore’ dà da mangiare pane bianco ai suoi cani, il popolo vive di radici ed erbe, con l’aggiunta di una quantità insufficiente di pane nero. Il ‘signore’ mette al riparo i suoi cavalli in stalle ben pavimentate e protette dal vento e dalla pioggia. I suoi contadini vivono in tuguri umidi e malsani, aperti a tutti i venti, senza finestre, senza tetto. L’intera famiglia dorme su un unico pagliericcio, nella stessa stanza con il mulo, il maiale ed i polli’(3).
Quattro anni prima (maggio 1898) dei ‘fatti’ di Putignano, il generale Bava Beccaris, a Milano, aveva massacrato a cannonate la folla inerme che pacificamente reclamava ‘pane e lavoro’ (circa 100 morti). Umberto I, il re ‘buono’ mandante della carneficina, lo elogiò e lo premiò immediatamente con la ‘Gran corona dell’Ordine militare di Savoia’ e la nomina di senatore a vita (aveva salvato la patria e la civiltà!), mentre la politica e gli interventi repressivi, già severi (Giolitti era Ministro degli Interni), venivano decisamente inaspriti in tutto il paese. In tutta Italia, tra fine ‘800 ed inizio ‘900, si ebbero rivolte e sommosse a causa della miseria e dello sfruttamento delle masse popolari. In Puglia, nel solo 1902, in seguito alle proteste popolari, oltre che a Putignano, si ebbero eccidi, con morti e feriti, a Cassano Murge, a Candela, a Cerignola, ecc. I ‘fatti’ di Putignano(4). Anche la mattina del 13 maggio 1902, molto di buon’ora come fino a tempi ancora recenti, in piazza Plebiscito stavano i braccianti disoccupati in attesa dei proprietari o degli ‘antieri’, loro fiduciari, con la speranza di una giornata di lavoro. All’offerta di una paga giornaliera di 50 centesimi -meno del prezzo di un chilo di sale, mentre la giornata corrente era di una lira e mezza per un lavoro ‘normale’-, alcuni braccianti cominciavano a protestare. Si radunava, così, una piccola folla esasperata che, domandando ‘pane e lavoro’, si avvicinava alla casa del sindaco, notar Gaetano Morea, anch’egli possidente e proprietario terriero, il quale prometteva di interessarsi per il lavoro ed ordinava al Comune una distribuzione di fave per acquietare i morsi della fame. I braccianti gettavano le fave sulla strada, gridando indignati ‘che lavoro doveva ad essi darsi, non già l’elemosina’(5), mentre uno di loro, Giovanni De Tommasi, socio della Lega dei Contadini, veniva arrestato dai Carabinieri che, ad ogni buon conto, chiedevano rinforzi. La mattina successiva, una folla di cinquemila braccianti, insieme a contadini poveri e piccoli artigiani in miseria, uomini, donne, ragazzi, si ammassava su corso Umberto I, dove era l’ingresso del Municipio e della Caserma dei Carabinieri, per chiedere la liberazione, che avveniva, del compagno arrestato. Nonostante ciò, la protesta riesplodeva, con la folla che domandava a gran voce l’abolizione del dazio, degli impiegati municipali pagati dal popolo e della scuola che sottraeva i bambini al lavoro dei campi, magro integrativo dello stentato sostentamento familiare. Alla vista dei carabinieri a cavallo che evidentemente si apprestavano alla carica, la folla, ancora più indignata, cominciava a scagliare i sassi della strada ed a devastare ed incendiare i casotti in legno della cosiddetta ‘cinta daziaria’ e gli uffici del dazio di Porta Barsento e del Palazzo Municipale, mentre il Sindaco, cui la folla aveva chiesto invano di mettersi alla sua testa con la banda e la bandiera, riusciva a stento a rifugiarsi nel Municipio.

Fu a questo punto che, mentre la massa incalzava e una donna, Margherita Pusterla, cercava di disarmare un tenente scivolato a terra per impedirgli di sparare, veniva dato ai Carabinieri l’ordine di aprire il fuoco sulla folla. A terra restavano numerosi feriti, tra cui, più grave, la stessa Pusterla -che morirà quattro giorni dopo, insieme a Pasquale Casulli, Francesco Lippolis, Darconzo, Di Lena, Campanella ed altri. Feriti anche alcuni Carabinieri. ‘Caduta la Pusterla colpita da palla, la folla indietreggiò terrorizzata, mentre il fuoco cessava così immediatamente; quando poi verso l’undici e mezzo, arrivata la truppa, poté ristabilirsi l’ordine e riattivarsi il servizio daziario’(6). Seguirono denunce ed arresti tra i dimostranti. Margherita Pusterla moriva il 18 maggio 1902, a 42 anni, e di nascosto veniva fatta seppellire alla mezzanotte del giorno 21. Il dott. Domenico Riccardi, stimato medico chirurgo, proprietario terriero, consigliere ed assessore comunale, nonché amico del sindaco Gaetano Morea, come causa della morte certificò ‘catarro intestinale’(7)! Di ‘genitori ignoti’, Margherita era stata trovata ‘esposta nelle ruota’ (così si diceva dei bambini abbandonati nella ‘ruota’ dei conventi o di altre istituzioni simili) a Putignano il 02.06.1859(8). Si spiegano così il suo nome e cognome che sono quelli di una nobildonna milanese del XIV sec., protagonista dell’omonimo romanzo (1838) del patriota scrittore risorgimentale Cesare Cantù. Glieli assegnò il sindaco, che fungeva da ufficiale dello stato civile, Leonardo Romanazzi il quale evidentemente conosceva il romanzo.
La ‘nostra’ Margherita lasciava sei figli in tenera età, come si apprende dalla replica dell’on. Todeschini alla risposta del capo del Governo, Giovanni Giolitti, nel dibattito parlamentare sui ‘fatti’ di Putignano (1° aprile 1903, p. 6971). In uno ‘stato di famiglia’ dell’ Archivio storico del Comune di Putignano ne risultano viventi solo quattro. Poveri contadini braccianti (anche se Margherita in qualche atto ufficiale risulta ‘casalinga’, ma allora accadeva spesso), nessuno di loro sapeva leggere e scrivere(9). Abitavano in un piccolo sottano di qualche metro quadro, un tugurio, al n. 77 di via Campanile, ‘sott o campanar’, dove vivevano, fino a qualche decennio fa, i ‘dannati della terra’ di Putignano. Con la ripresa della vita democratica dopo la caduta del fascismo, nella seconda metà degli anni ’40, il 1° maggio si onorava a Putignano la memoria di Margherita Pusterla con un corteo di braccianti organizzato dalla Camera del Lavoro-CGIL per recare una corona di fiori alla sua tomba, all’ossario comune. Nello stesso tempo, sembra fosse stato proposto di intitolare una strada (verosimilmente, via Margherita di Savoia) al suo nome, ma non se ne fece niente. Sembra pure che tra i braccianti si cantasse una canzone sulla storia di Margherita. Notizie sulla sommossa popolare di Putignano furono riportate dall’Avanti! e da qualche giornale locale; ci furono anche interpellanze parlamentari. Dopodiché, tutto è finito nel dimenticatoio, come quasi sempre è accaduto alle vicende, private e pubbliche, della povera gente.
Parecchi tra coloro che presero parte alla rivolta furono accusati di reati vari. Il Tribunale Civile e Penale di Bari ne processò 32, tra cui 3 donne e 4 minori (per l’elenco dei nomi, si veda l’allegato in appendice). Diverse furono le condanne. Interessante, quanto inaspettata per l’epoca, risultò la sentenza del Tribunale di Bari di appena tre mesi dopo i fatti (20 agosto 1902), tanto che la stessa fu dettagliatamente inserita in un voluminoso lavoro sul ‘delitto collettivo’ da uno studioso del diritto dell’inizio del secolo scorso, Scipio Sighele, con la seguente premessa:

 

‘I DISORDINI DI PUTIGNANO. La sentenza che più innanzi riproduciamo è la terza che il Tribunale di Bari pronuncia in tema di folla delinquente ((1) Vedasi più indietro: La ribellione di Gravina (sentenza del Tribunale di Bari, 17 febbraio 1887) e Folla e setta delinquente (sentenza del Tribunale di Bari, 14 giugno 1897).) Ed ormai possiamo dire che quel Tribunale, come fu il primo ad avere l’intuizione giuridica del delitto collettivo, così è il più costante nell’applicare a questo delitto la scriminante dell’art.47 Cod. pen. (semi-responsabilità).

 

E’ notevole -ed encomiabile- che in questa sentenza, come il lettore vedrà, il Tribunale abbia tenuto conto, per diminuire la pena agli imputati, anche della loro condizione di assoluta miseria. Quando una folla di contadini si vede offerta l’irrisoria mercede di cinquanta centesimi per una giornata di lavoro, è giusto è umano è doveroso che i giudici, nel considerare i reati commessi da quella folla, si ispirino alla clemenza. Questo criterio di umanità –così raro purtroppo nelle sentenze dei nostri magistrati- è un vanto del Tribunale di Bari. E noi siamo lieti ed orgogliosi che siano state così autorevolmente riconosciute le osservazioni che abbiamo sviluppate nel Capitolo II della parte I^ di questo volume a proposito delle plebi reclamanti’(10). In sostanza, il sindaco di Putignano Gaetano Morea, coinvolto nei fatti come abbiamo già visto, nella seduta del Consiglio Comunale del 5 luglio (erano già trascorsi quasi due mesi!), dopo un brevissimo distaccato accenno alla ‘data funesta del 14 maggio per Putignano’, aveva sostenuto che ‘il moto sovversivo’ non era stato causato dalla miseria, dalla mancanza del lavoro e dalla retribuzione irrisoria offerta ai contadini: il vero motivo ‘fu l’opera e la istigazione di pochi sovversivi dell’ordine’(11). I giudici di Bari, al contrario, nella sentenza già citata dichiararono molto esplicitamente che ‘la precipua causa dei moti sovversivi fu … il disagio economico, la squallida desolante miseria in cui oggi versa la classe diseredata di Putignano, il lavoratore dei campi che non sa come provvedere ai bisogni della vita dell'oggi per sè e la sua famiglia. Sobrio, laborioso, paziente, buono, sottomesso, economico, il contadino Putignanese lavora sempre, quando può, ma il suo lavoro è insufficiente a mantenere sé e la famiglia, perché vilmente retribuito. Fu questo il motivo per cui insorse la folla nel 14 maggio. La vile mercede, offerta ai contadini in quella mattina (centesimi cinquanta in maggio), la pioggia, che in quell'incontro cadde malauguratamente, togliendo loro anche la magra risorsa della mercede, l'arresto del compagno fattosi il dì innanzi, furono la scintilla che suscitò i disordini impulsivi e convulsi di una folla selvaggiamente eccitata’, insieme al ‘bisogno prepotente di un avvenire migliore, …da lungo tempo vagheggiato, ma mai raggiunto …. Infatti non vi fu un preordinamento al delitto … . La folla era inerme, dominata dapprima da buona intenzione, se voleva il Sindaco, con bandiera e musica … . La stessa requisitoria finale del pubblico Ministero svela la causa vera dei moti che si sostanziano alla fin fine in questi e nell’enorme odierno disagio economico del povero contadino di quelle terre, che è costretto a pascersi, per vivere a stento, di farinella (gran turco e segala grattugiati)’. Gli stessi giudici dovettero riconoscere che i braccianti, insieme a contadini ed artigiani poveri, erano stati spinti alla ribellione non solo dalla miseria, dalla fame, dallo sfruttamento, ma anche dal peso, divenuto ormai insopportabile, della dignità calpestata ed offesa. Quante donne avevano dovuto partorire sotto un ulivo o dietro un parete, mentre, per una misera paga, zappavano sfidando il freddo e la pioggia o mietevano sotto il sole cocente? Quante morte di parto insieme alle loro creature? Quante avevano visto i loro figli morire di freddo e di fame, dopo aver faticato come bestie per produrre grano, ceci, uva, olive, mandorle e ogni ben di Dio per i magazzini degli agrari? Quante donne avevano dovuto sottostare, con le buone o le cattive, ai desideri dei ‘padroni’? Quanti, uomini e donne, costretti dai proprietari a mettere la museruola come i cani, per impedirgli di sfamarsi con un grappolo d’uva durante la vendemmia? Quanti braccianti oltraggiati come ubriaconi e violenti solo perché, a fine giornata, abbrutiti dalla fatica e delusi dalla misera paga che non sarebbe bastata nemmeno a sfamare se stessi e la famiglia, andavano ad affogare l’amarezza e la rabbia nella ‘droga dei poveri’, il vino delle cantine degli stessi agrari, cui restituivano così immediatamente quei pochi centesimi? Quanti non erano tornati più alle loro case, stroncati dalla malaria o dall’insolazione, costretti ad andare, a piedi, a guadagnarsi un boccone di pane alla ‘marina’ o alla ‘montagna’ sotto la frusta del ‘caporale’? E la proibizione di possedere un orologio, pena la perdita del
lavoro a vita, salvo emigrare(12)? Quanti dovettero abbandonare la loro terra e i loro affetti per emigrare verso ‘lamerica’ o l’Australia, se riuscivano a non crepare nell’oceano durante la traversata? Su richiesta del Pubblico Ministero -che contestava la concessione ai braccianti di Putignano, sulla base di tutte queste
motivazioni, di significative attenuanti e sconti di pena- si svolse un secondo processo d’appello davanti alla Corte di Trani. La
prima sentenza del Tribunale di Bari fu cancellata e le pene decisamente inasprite. Finalmente giustizia fu fatta(13)!

*****

Per concludere, si impongono almeno alcune considerazioni immediate, con la speranza che la ricerca e la riflessione su questi temi vada avanti. Anzitutto bisogna ricordare che i giudici ed i magistrati dell’epoca provenivano esclusivamente dalle ricche famiglie aristocratiche o borghesi, per lo più dei grandi proprietari terrieri. Non potevano certo parteggiare ideologicamente per i lavoratori della terra che, tra l’altro, ad un certo punto della stessa sentenza, vengono definiti ‘idioti’. Dunque, la loro ricostruzione puntigliosa delle cause della rivolta dei braccianti di Putignano e delle loro condizioni di vita risulta più che credibile. A questo punto, bisognerebbe rivedere la convinzione corrente secondo cui, già all’inizio del ‘900, Putignano fosse una cittadina ‘prosperosa’, nel senso di un certo ‘benessere’ diffuso come lo intenderemmo oggi. Almeno fino a qualche decennio successivo al secondo dopoguerra (per una più puntuale conferma, andrebbe approfondita, tra l’altro, la storia delle mobilitazioni e delle lotte bracciantili di quel periodo a Putignano), appena mezzo secolo fa, la grande maggioranza della nostra popolazione era costituita da contadini braccianti sfruttati e vilipesi che, insieme ad una minoranza di artigiani poveri, vivevano nei tuguri del centro antico, in una condizione di degradante miseria. Proprio loro che, con il duro lavoro della terra, erano i produttori veri della notevole ricchezza che finiva nelle mani di una ristretta classe di grossi proprietari terrieri, formata da piccola aristocrazia locale e ricca borghesia agraria. Non si tratta qui di voler fare ideologia, giacché i fatti parlano da soli. All’epoca degli avvenimenti, quando il pane costituiva la base, fondamentale e spesso esclusiva, dell’alimentazione dei ‘poveri’ (che, nelle misere abitazioni, dovevano nasconderlo per proteggerlo dai topi e dalla fame dei bambini), i 14.000 putignanesi ne consumavano una media di 30 quintali al giorno: fatte le proporzioni, meno della metà della media dei 50 quintali di farina al giorno consumati in Puglia (non in Lombardia!) per ogni 10.000 abitanti! In tempi in cui non si andava per il sottile, il 71% dei giovani arruolabili per il servizio militare obbligatorio era rifiutato per le conseguenze della malnutrizione. Nello stesso tempo, ‘Putignano è il centro che dopo Bari, ha maggiori depositi nella Cassa di risparmio’ e ‘a Putignano vi sono parecchi proprietari che dispongono di centinaia di migliaia di lire in contanti’(14), cosa non abituale per l’epoca: chi produceva quella ricchezza?

 

In secondo luogo, andrebbe approfondito e senza dubbio rivalutato, nella storia recente di Putignano, il ruolo economico e sociale dei braccianti agricoli, uomini e donne, che, oltre ad essere stati evidentemente, prima delle operaie dell’abbigliamento, gli artefici della ricchezza materiale su cui è si è costruita la nostra realtà attuale, sono stati anche, con il loro prepotente bisogno di riscatto civile ed umano, il motore dell’avanzamento sociale e della conquista della democrazia, dei diritti e della dignità per tutti, almeno sulla carta, e di quel tanto di cui oggi godiamo ed andiamo fieri. Margherita Pusterla ed i suoi compagni, umili eroi misconosciuti, protagonisti della nostra epopea bracciantile e contadina, le loro lotte, i loro sacrifici hanno diritto alla nostra riconoscenza ed alla nostra gratitudine. Quantomeno non neghiamogli la memoria, magari intitolando al loro ricordo almeno una strada della nostra città.
PAOLO VINELLA - Settembre 2003